Omelia di Gianfranco Cardinale Ravasi

Gianfranco Card. Ravasi

OMELIA GIANFRANCO CARDINALE RAVASI (Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura) tenuta in Pontificio Collegio Croato di San Girolamo in occasione del 51° Anniversario della morte del Beato Cardinale Alojzije Stepinac (10 febbraio 2011)

Vorrei innanzitutto ringraziare il rettore, monsignor Bogdan, per l’invito che mi ha rivolto e che mi permette, questa sera, di essere all’interno di una comunità, mentre vive uno dei suoi momenti più intimi che le consentono di risalire alle sue radici, alla sua terra anche se lontana. Di risalire soprattutto a quei volti e, in particolare, a quello del beato Stepinac che oggi è davanti agli occhi di tutti noi. Vorrei prima di tutto rivolgere un ringraziamento e un saluto a tutta la comunità croata. In primo luogo, al caro monsignor Eterović, che da quando sono a Roma mi è amico fraterno e a tutti i sacerdoti che mi circondano e che vorrei rappresentare, attingendo alla Lettera agli Ebrei (12,1), come un nugolo di testimoni intenti ora a ricordare un grande testimone. Infine a tutti: dai vostri ambasciatori fino a quanti ricordano questo momento della vostra storia che risale a 51 anni fa.

Prima di proporre una riflessione sulla Parola di Dio, vorrei anche aggiungere un saluto che viene proprio dalla vostra terra, un saluto affidatomi idealmente proprio ieri, dal cardinale Bozanić, che era qui a Roma e che mi ha pregato di ricordarlo in questa nostra messa, mentre a Zagabria egli contemporaneamente a noi celebrerà la stessa liturgia in memoria del Cardinale Stepinac. Inizierei ora con una prima riflessione su una frase del beato Stepinac, che poi intesseremo insieme con il brano della Bibbia che abbiamo appena ascoltato: «Il mio polso ha battuto sempre col polso del popolo croato». È bella questa immagine del battito del polso e del cuore in sintonia con la propria terra, un battito segnato soprattutto – e qui entriamo nella Parola di Dio – dalla parola che egli proclamava.

Infatti, abbiamo ascoltato, all’interno del brano dalla Seconda Lettera di san Paolo ai cristiani di Corinto, una frase che l’Apostolo incastona in questo frammento. Forse saprete che la Seconda Lettera ai cristiani di Corinto fu scritta tra le lacrime; si tratta di una lettera tormentata, in qualche punto persino sdegnata. La frase è tratta dal Salmo 116,10 che san Paolo cita: «Ho creduto, perciò ho parlato!» (2 Cor 4,13). Ecco, io penso che tale motto sia adatto anche al vostro e nostro Beato, il cui cuore, il cui polso batteva insieme con voi.

Una parola, la sua, che era autentica, che non doveva essere adattata, modulata e modellata così da diventare non più offensiva. Una parola che aveva tutte quelle caratteristiche con cui la Bibbia descrive l’autentica Parola di Dio, ossia una parola che è – per dirla col profeta Geremia – come un martello che spacca la roccia; come un fuoco ardente che brucia nelle ossa (23,29); o come si legge nella Lettera agli Ebrei: efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra…fino alle giunture e alle midolla (4,12). Il beato Stepinac ha creduto, perciò ha parlato!

A questo proposito, vorrei ricordare le parole pronunciate dal grande scrittore cattolico francese, François Mauriac, in occasione della morte del cardinale Stepinac, quando citava proprio una frase dell’arcivescovo di Zagabria, commentandola così: «L’arcivescovo di Zagabria aveva scritto nel 1944: La Chiesa cattolica non teme nessuna potenza sulla terra e non deve temerla, quando si tratta di difendere il diritto dell’individuo, della persona». E commentava, dato che il cardinale era appena morto il giorno prima: «Chi parlerà ora che i cristiani tacciono? E se essi tacciono, le pietre, però, grideranno!». Penso che questa frase, applicata alla figura del beato Stepinac il quale aveva creduto e parlato, abbia un significato particolare ai nostri giorni così grigi, in cui le parole, anche quelle dette dagli stessi cristiani, non feriscono più, non incidono più, non artigliano più le coscienze.

Sono parole omologate a quelle di una società ormai amorale e piuttosto indifferente in una Europa stanca che, come è facile notare, ha perso il suo volto, anche cristiano, il volto cioè della sua cultura nobile. Un continente che non sa più neppure gridare quando vengono violati i diritti fondamentali della persona o lo stesso cristianesimo e i cristiani vengono profondamente umiliati e fatti tacere. Ebbene, se non ci sono più le voci come quelle del beato Stepinac, il Vangelo, però, ci ricorda che le pietre grideranno (cf. Lc 19,40). Ed ecco un appello che invita tutti noi a dare testimonianza. Sappiamo bene che la parola “martire” è termine greco riferito a colui che “testimonia” con coraggio, rischiando anche di perdere la propria vita.

Vorrei poi fare con voi una seconda riflessione sulla parola di Dio che abbiamo ascoltato all’interno della prima e della seconda lettura. È da notare quel flusso di immagini che usava la prima lettura, opera di un sapiente vissuto nel II sec. a.C., il cui nome era come quello di Cristo: si chiamava, infatti, Gesù ben Sira, donde Siracide. Egli ricorre a immagini di persecuzione e conclude il suo libro con una sorta di salmo. Basta citare soltanto le prime righe: perdizione, lingua calunniatrice, menzogne, colui che stava per divorarmi, quanti insidiavano la mia vita, le tribolazioni, la fiamma che mi avvolgeva, il profondo degli inferi, la lingua impura e falsa, e così via (cf. Sir 51,3b-7). Sono quindici le immagini che usa.

Ma soprattutto è da sottolineare il fatto che egli, accanto a queste immagini, ricorda ininterrottamente la presenza del Signore: Signore, mio padre sei tu, autore della mia salvezza, tu non mi abbandoni nei tempi di angoscia, nel tempo dello sconforto, della desolazione, la mia supplica viene esaudita…(cf. Sir 51,1-2.10) Vedete, c’è questo continuo doppio registro, tra la prova e la serenità, tra la sofferenza e la speranza. La stessa cosa diceva san Paolo con quattro frasi soltanto, che sono scandite in maniera molto nitida e limpida: siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non siamo disperati; siamo perseguitati, ma non abbandonati (cf. 2 Cor 4,8-9a). È bellissima questa sequenza di contrasti che contiene un altro elemento tipico della testimonianza del beato Stepinac e di tutti i martiri, cioè il non avere terrore pur essendo nel pieno del terrore.

In italiano, come in molte altre lingue, esistono due parole che sono considerate dei sinonimi. In realtà, non lo sono del tutto. La parola “paura” indica debolezza, terrore, abbattimento. Chi è avvolto dalla paura, vede tutto ciò che lo circonda come segnato, striato di pericoli, insomma vive nella notte. Ma esiste un’altra parola che, invece, non è negativa, pur avendo apparentemente lo stesso significato. Si tratta della parola “timore” che, in fondo, vuol dire rispetto. Tant’è vero che la Bibbia dice: il principio della sapienza vera è temere il Signore (cf. Pr 9,10), cioè avere il timore del Signore. Io penso che i martiri – in maniera particolare il beato Luigi Stepinac – abbiano sicuramente provato anche la paura. Gli arresti, i processi, il clima teso, l’atmosfera ostile erano innegabili, eppure, l’unica realtà che il Cardinale aveva dentro di sé era il timore di Dio, vale a dire il rispetto della verità.

Ed è questo, senz’altro, il grande dono che anche noi dobbiamo chiedere a Dio. Ai nostri giorni si insegna a non avere paura di nulla. In verità, abbiamo tante paure nascoste e mai come in questo periodo sono quasi indispensabili gli psicoanalisti e gli psicologi per sanare da tutte le fobie, da tutte le paure. Purtroppo, però, abbiamo perso il vero timore, ossia quel rispetto autentico nei confronti dei valori per i quali si dovrebbe essere pronti a sacrificare persino se stessi per timore di Dio, della verità, per rispetto nei confronti della grandezza che sta sopra di noi, che ci precede, ci eccede e ci supera.

Concluderò con un ultimo tema che attingo ancora una volta alla Parola di Dio che abbiamo ascoltato. E qui desidererei accostarmi idealmente agli ultimi momenti della vita del beato Stepinac, a quel 10 febbraio del 1960 quando si chiudeva la sua parabola terrena. Abbiamo sentito le parole del Vangelo di Luca il quale illustra la vita del discepolo, descrivendola, a differenza degli altri evangelisti, come un “portare la croce ogni giorno”. Questo particolare della quotidianità lo troviamo soltanto nel testo di Luca: la vita è un flusso continuo di prove e di martirio. La testimonianza non è soltanto quel momento ultimo e grande che corona un’intera esistenza, ma è anche e soprattutto reggere ogni giorno il peso della propria croce piccola o grande che sia.

Quando all’alba comincia una nuova giornata, pensiamo, ad esempio, a quei genitori che si risvegliano e, avendo un figlio drogato, si ritrovano davanti tutta la loro costante tragedia familiare. Si ripresenta ancora quella pesante croce quotidiana che dovranno portare per mesi e forse per anni. Pensiamo anche a tanti giovani che non sanno quale senso dare alla loro vita, che non sperano più e vanno avanti trascinando, per inerzia, la loro croce. Ma questa via crucis ha, però, una meta, che non è quella della morte: quando la croce di Cristo viene deposta, si giunge al di là del tempo, una volta compiuto il cammino della vita, si entra nell’eternità gloriosa di Dio, nella sua pace.

Aggiungerei, allora, due diverse testimonianze da applicare alla figura del beato Stepinac e idealmente anche a noi come principio di speranza, perché il nostro itinerario, dopo aver portato la croce con le più varie sofferenze dell’esistenza, abbia tale meta luminosa. La prima è quella di poter dire che, se abbiamo una fedeltà costante, lasceremo dopo di noi un seme, un germe nel terreno della storia. È quanto diceva del beato Stepinac un suo confratello, il cardinale Marty, arcivescovo di Parigi, che ricordandolo, concludeva una sua omelia con le seguenti parole: «Questo difensore fino alla morte dei diritti dell’uomo in nome del Vangelo, merita questo: che non sia dimenticata questa pagina della storia della Chiesa». Ed è ciò che noi ora stiamo facendo, a cinquant’anni di distanza. Se fosse stato un normale vescovo, probabilmente sarebbe ricordato con una fredda epigrafe in cattedrale. E, invece, noi siamo qui a parlare di lui come di una creatura viva; il suo seme, perciò, è per noi ancora stimolo di riflessione.

Con la seconda testimonianza cerchiamo di immaginare quell’istante successivo alla sua morte. Non so a che ora sia morto il Cardinale Stepinac in quel 10 febbraio del 1960. Pochi minuti dopo, anzi un istante dopo, è avvenuto l’incontro col suo Dio, con quel Cristo di cui aveva predicato la Parola di vita e a cui aveva sacrificato e donato la sua esistenza con una splendida testimonianza. E qui facciamo nostre le parole del canto che il coro ha eseguito, accompagnandoci in maniera tanto raffinata. Si tratta di una frase biblica divenuta il motto del Cardinale Stepinac: In te Domine speravi (cf. Sal 31,2). Al di là di quella soglia, di quella porta della morte, immagino che sia avvenuto un dialogo del beato col suo Dio. Vorrei rappresentare questo dialogo con le parole di un grande pensatore dell’Ottocento, credente autentico, il filosofo danese Soeren Kierkegaard. Questi, nei suoi Diari, immaginava così l’incontro tra il martire e il suo Dio: «Quando il testimone della verità arriverà alla sua morte, dirà a Dio: Grazie a te, infinito amore, anche per tutte le sofferenze e le croci che mi hai dato. Ma Dio gli risponderà: No! Grazie a te, amico mio, per l’uso meraviglioso che io ho potuto fare di te».