Memoria liturgica del b. Alojzije Stepinac, omelia alla Chiesa di San Girolamo dei Croati, 7 febbraio 2016.

Cardinale Velasio De Paolis C.S.

La parola di Dio che è risuonata alle nostre orecchie nella liturgia, che stiamo celebrando in questa quinta domenica tra l’anno, ciclo festivo anno c, è particolarmente ricca per una riflessione sulla vocazione cristiana. E’ un tema particolarmente pertinente e in sintonia con la celebrazione della memoria del Beato Luigi Stepinac, cardinale martire ucciso in odio alla sua fede cristiana cattolica.

La prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia racconta la chiamata del profeta in una visione profetica veramente impressionante. Egli si sente chiamato ad annunciare il messaggio di Dio al suo popolo. La scena è grandiosa: la presenza di Dio riempie il tempio; il Signore  appare dall’alto del  suo trono; è circondato da messaggeri celesti, i serafini, che annunciano ed acclamano la santità di Dio con il trisagio, il tre volte Santo. La gloria che riempie il tempio si estende al mondo intero e riempie tutta la terra: “Tutta la terra è piena della sua gloria”.  Una presenza di santità tanto abbagliante che diventa accecante ed è insostenibile per l’uomo, al punto che egli si sente perduto. Di fronte al mistero della santità di Dio, l’uomo si sente lontanissimo da Dio, percepisce la sua piccolezza e particolarmente la sua realtà di tenebra e di peccato, quindi di contrasto con Dio; è assalito dalla paura. Come può l’uomo sostenere il mistero di Dio e farsene messaggero? “Un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo ad un popolo dalle labbra impure io abito”. Non si tratta solo del profeta chiamato, ma di tutti gli uomini; non solo il messaggero, ma anche i destinatari del messaggio hanno le labbra impure e il cuore indurito.

Tuttavia questo momento di sbigottimento è superato; l’incontro tra Dio e l’uomo è possibile. Per grazia. Per dono. Per iniziativa di Dio che purifica, e rinnova e rende capace l’uomo di sostenere la visione di Dio e di accogliere il suo messaggio, il suo incarico e la sua missione: ”I miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”. L’uomo è stato purificato attraverso il fuoco dello Spirito, il carbone ardente preso dall’altare, con il quale il serafino tocca la bocca del profeta; è il tocco che fa scomparire la colpa, ed espia il peccato; rinnova l’uomo e lo rende capace di essere messaggero e strumento nelle mani di Dio. Lo sbigottimento dell’uomo scompare, la paura cessa, le energie ritornano e l’uomo esprime la sua disponibilità ad essere strumento nelle mani di Dio: “Poi io udii la voce del Signore che diceva: <<Chi manderò e chi andrà per noi?>> E io risposi: Eccomi, manda me!”.

La liturgia della Chiesa ci ripresenta questa visione ogni volta che celebra l’Eucarestia, all’inizio della grande preghiera eucaristica. Il mistero di Dio e della sua santità che si avvicina all’uomo e lo santifica, ha trovato il suo momento culminante nel mistero dell’Incarnazione e precisamente nel momento più alto della missione del Figlio di Dio fatto uomo, quando “dopo aver amato gli uomini che erano nel mondo, li amò, sino alla fine”, con l’offerta della propria vita. Un momento unico, atto compiuto una volta per sempre, destinato ad essere rinnovato nel tempo e reso permanente fino a che non abbia prodotto tutta la sua forza rinnovatrice. E’ il mistero del sacerdozio di Cristo che si fa presente proprio nella celebrazione del sacrificio redentore.  E’ il luogo e il momento in cui Dio chiama l’uomo associandolo al suo essere ed operare per rimanere presente nel mondo: “Fate questo in memoria di me”. L’uomo è chiamato a collaborare con Dio per continuare ad essere ed operare nel mondo attraverso il sacerdozio, che consacra l’uomo ad agire in persona Christi: ad essere identificato con lo stesso Verbo di Dio: “Questo è il mio corpo”. “Questo è il mio sangue”.  Il soggetto divino e quello umano vengono ad identificarsi, senza per altro perdersi o confondersi.

La vocazione, la chiamata che Dio rivolge all’uomo a collaborare con Lui trova il suo punto più alto nel mistero di Gesù, Verbo Incarnato, nel momento supremo della sua vita e della sua missione: il mistero della Pasqua. Il senso e la storia della vocazione cristiana si compie nella persona e nella Pasqua del Signore morto e risorto per noi.

Il vangelo ci riporta a questa realtà; ci narra la vocazione alla quale sono chiamati i primi discepoli di Gesù, particolarmente Simon Pietro. La Chiamata risuona mentre Simone è impegnato nel suo mestiere di pescatore, in un momento anche di scoramento: ha pescato, ha faticato invano, tutta la notte senza prendere nulla.  La richiesta di Gesù “prendi il largo e gettate le reti” poteva apparire quasi una provocazione. Ma Simone non la intende così; sta aprendosi a qualche cosa di nuovo, di più grande, che va oltre se stesso! Quel personaggio che sta incontrando e che dedica il suo tempo a predicare, a rivelare il mistero di Dio agli uomini, lo incanta e lo rende umile, aperto a possibilità più grandi. Là dove umanamente non si vedono vie di uscita, è possibile osare di più facendo fiducia a realtà più grandi: “Sulla tua parola getterò le reti!”.  Ed ecco il risultato: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano“. Gli occhi si aprono; i pesci rinviano a guardare più lontano, aprono l’orizzonte della vista; è il miracolo della grazia, che apre gli occhi verso altezze e profondità che cambiano la vita. “Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”.  Simon Pietro è stato illuminato dal di dentro, ha incontrato una luce superiore, la persona di Gesù, ha scoperto anche la sua povera realtà umana; l’uomo e il peccatore ha incontrato Dio, la cui grandezza per contrasto fa conoscere all’uomo la propria povertà e lo induce a confessare la propria piccolezza. Si realizza la condizione perché la grazia con la sua luce e la sua forza possano trasformare l’uomo e farlo nuovo, capace di rispondere alla chiamata del Signore, e mettersi al suo servizio, al servizio della missione del Signore: “Gesù disse a Simone: Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. E’ l’inizio del lungo cammino che Pietro sarà chiamato a percorrere alla sequela di Gesù, fino all’offerta della propria vita, a chiedere di essere crocefisso all’ingiù, perché si sente perfino indegno di morire con la stessa morte del suo maestro e Signore.

La vocazione cristiana trova così il suo senso nella sequela di Gesù Cristo, nella sua imitazione e nella conformazione a lui, nella sua stessa vita, al punto che san Paolo può dire: “La mia vita è Cristo”. E come la missione di Gesù si è rivelata pienamente nel mistero della Pasqua, così anche la vocazione cristiana trova nel mistero della Pasqua il suo senso pieno, nella duplice dimensione di morte e di resurrezione. Essa s’inserisce nel mistero di Cristo e in essa trova il suo senso e il suo compimento. E come il mistero di Cristo è il disegno del Padre, così la vocazione cristiana è la chiamata del Padre a vivere nel suo disegno di amore come Cristo Gesù. E’ la vocazione alla santità, da vivere e realizzare nel cammino specifico al quale, secondo i diversi disegni del Padre, egli chiama. San Paolo ci apre proprio a questo grande orizzonte, quando egli scrivendo nella lettera ai Romani, cap. 8, 28-30, ci apre il seguente orizzonte che trasceende il tempo:

“Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che da sempre egli ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli che ha predestinali li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati”.

Il mistero della vocazione cristiana è così la rivelazione del disegno di amore del Padre in Cristo Gesù verso gli uomini; parte dal cuore del Padre e si compie nel cuore del Padre, nel quale siamo diventati figli nel Figlio. Il Figlio ha compiuto il cammino di venire fino a noi, per portarci fino a Lui. Egli è la via, la verità e la vita. La via che porta alla pienezza della verità e della vita. Alla luce di questo mistero noi possiamo anche comprendere, la bellezza, la ricchezza, la grandezza, l’altezza e la profondità della nostra vocazione.

Alla luce della parola di Dio a partire dalla quale abbiamo compiuto il nostro cammino di riflessione, noi possiamo anche contemplare la mirabile figura del beato Luigi Stepinac martire, testimone della nostra fede. Sappiamo che egli nel momento di intraprendere il cammino di santità della propria vita ha attraversato un qualche momento di oscurità e d’incertezza. Il cammino di santità verso il sacerdozio verso il quale egli aveva l’inclinazione è stato frenato dal fatto che egli da una parte coglieva la bellezza e la grandezza di questa vocazione e dall’altra, non gli erano ignoti purtroppo i casi di sacerdoti indegni che non conducevano per niente una vita di santità. Lui non voleva neppure correre il rischio di essere un sacerdote indegno. Meglio pertanto ripiegare sulla via ordinaria del matrimonio. Con questo egli però non intendeva assolutamente rinunciare ad un cammino di santità; era indotto a scegliere un cammino che egli reputava più facile e comunque forse meno rischioso per la salvezza. Ma il Signore provvide in tempo a fargli comprendere qual era effettivamente il suo cammino di santità, la sua vocazione nel disegno di Dio: essere sacerdote di Dio, chiamato non solo a percorrere il cammino di santità di conformazione a Cristo nel matrimonio, ma un cammino di santità di conformazione sacramentale a Cristo nel sacramento dell’ordine, fino alla pienezza del sacerdozio nell’episcopato.

 Egli visse questa vocazione in pienezza: una vita sacerdotale esemplare, un dono totale di sé ai fratelli a lui affidati, una disciplina e austerità di vita con un perfetto dominio e dono di sé, con una fedeltà assoluta a Cristo e alla Chiesa; con una testimonianza di vita sacerdotale a tutta prova; con una spiritualità salda, forte e solida, centrata sull’Eucarestia e la dignità sacerdotale capace di fare dono di sé, senza incertezze e senza tentennamenti, fino al martirio.

 All’amore di Cristo, che lo aveva chiamato alla sua intimità e alla sua amicizia, egli rispose con l’amore più grande, con il dono della propria vita, con la testimonianza del martirio, con l’amore più grande, secondo le parole del Signore: non c’è amore più grande del dono della propria vita. E’ questo il senso della vocazione cristiana; è questo il senso della nostra vocazione cristiana, qualunque sia la strada che siamo chiamati a percorrere nella sequela e nell’imitazione del Signore Gesù. Amen.